Ultimo Aggiornamento lunedì 22 Febbraio 2021, 3:38
Set 22, 2019 Attualità, World Wide
In un’estate, che rimane una delle più pazze della Repubblica, si poggiano le sue fondamenta e, ne evidenziano una qualità nuova, sul rapporto tra politica, forme delle leadership e strumenti della comunicazione che stanno evolvendo sotto l’egemonia delle tecnologie digitali. Le forme della politica, i modelli di organizzazione interna di partiti e movimenti e le diverse “cessioni di sovranità” che i singoli concedono alle strutture a cui partecipano e votano, la struttura e la forma degli strumenti della formazione del consenso che nell’era digitale tende a coincidere con quella organizzativa e a isoformarsi alle sue logiche e strutture, la percezione della propria condizione umana che slitta dal vissuto al percepito, le opzioni politiche disponibili nell’universo “dell’offerta politica” verso le quali siamo indirizzati, costituiscono una derivazione della più generale forma della relazione di fondo su cui poggia la società contemporanea: L’industria dei sensi.
È un “tutto”, un unicum, che progredisce come un “blob”, riproducendo se stesso e inglobando la realtà all’interno della propria “logica”. Dentro questa permanente essudazione di se stessa, questa formazione sociale inverte il rapporto tra processi materiali e percezione della propria condizione personale, una dimensione e un rapporto sempre più complesso che si sviluppa tra gli interessi che prima dell’era industriale avremmo definito “reali” e quelli percepiti dal nuovo individuo che abita le società egemonizzate da “L’industria dei sensi”. Inutile sperare che la “materialità” faccia riemergere una consapevolezza della propria condizione. Una azione politica per la sua costruzione, infatti, deve innescare un “corpo a corpo” con il senso della vita e della propria condizione e aspirazione prodotta da l’industria dei sensi e che poggia il proprio funzionamento non solo sulle più avanzate tecniche e tecnologie di costruzione della percezione della vita, ma sull’efficienza di una struttura industriale che mira al profitto nel proprio funzionamento e attira risorse planetarie per il proprio funzionamento.
La costruzione del senso della vita, quello che compone gli elementi della sua quotidianità materiale, delle scelte “concrete” – che facciamo dal momento in cui apriamo gli occhi fino a quando andiamo a dormire, passando per l’organizzazione della settimana, con i suoi riti di passaggio e di relazione, finendo per l’organizzazione dello svolgimento dell’anno solare con le sue feste, gli appuntamenti sociali e quelli personali e sono costellati dal susseguirsi dei mesi e dei relativi “obblighi” sociali – è ormai una costruzione, un prodotto industriale, una merce stessa. La grande fabbrica delle merci (materiali e immateriali) si poggia sulla più grande produzione di una meta-merce generalizzata: il consumatore.
Le scelte politiche “disponibili” sono ormai misurabili solo nella capacità di definizione del livello di consumo e delle sue attese. La costruzione di “senso”, infatti, abilita la costruzione di un “con-senso” politico di fondo al modello di questa formazione economico-sociale. Tutti, nel loro linguaggio e nei loro programmi, devono preannunciare che la loro proposta politica porterà ad un aumento della capacità di consumo del segmento sociale a cui si pensa di rispondere in termini di consenso. Il modello di fondo, quello del consumo, non viene intaccato e la “religione della crescita” ha ormai egemonizzato ogni proposta politica. Nessuna voce riesce, realmente, ad intaccare lo schema di questo modello imposto dalla necessità di valorizzazione del capitale attraverso il denaro che la finanza ha imposto. Oggi sappiamo che il capitalismo industriale, quello basato sulla domanda-offerta di “beni fisici” è fallito già nel 1929 e che da quel momento la possibilità di vita di questo modello poggia sulla creazione di un debito che genera interessi da riconoscere e che impone una crescita crescente (la tirannia del PIL) che ha portato al consumo dell’intero pianeta. Per questo la lotta sulla forma delle strutture della comunicazione rappresenta il centro della battaglia politica tra le classi, molto di più di forme che siamo stati abituati a pensare come centrali.
Le proposte populiste e sovraniste poggiano sull’illusione che sia possibile garantire tale infinito sviluppo attraverso la costruzione di nuovi “confini” che consentano a quel determinato popolo di garantirsi non tanto la “sovranità” di nuove regole di vita, di produzione, di nuovi rapporti tra le classi, ma il mantenimento del proprio permanente aumento dei consumi a scapito di altri popoli che dovrebbero rispondere, con le buone o le cattive, alle logiche di funzionamento del proprio benessere.
A queste proposte non si risponde difendendo i “valori umani” sul piano dell’etica. Vanno costruiti processi materiali generali che riconoscono la nuova forma della composizione delle classi sociali e dei loro “interessi olistici”, della loro condizione generale di vita e, oggi, potremmo dire addirittura di vera e propria sopravvivenza. Il passaggio della rottura degli equilibri climatici con i suoi portati di alterazione delle condizioni di vita e della sua riproduzione, infatti, non ci concede il tempo di confronti e scontri su aspetti marginali che l’agenda politica imposta dalle strutture dell’industria dei sensi impone alle nostre società. Abbiamo bisogno di nuove analisi e nuove teorie e, quindi, di nuove organizzazioni e gruppi dirigenti se vogliamo dare una chance di sopravvivenza non solo alla “classe degli sfruttati” ma alla maggioranza delle forme viventi che abitano il pianeta.
Sergio Bellucci
Saggista & Giornalista
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