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Ott 26, 2016 Cultura, Teatro & Cinema
Sulla Rai da qualche anno, nel cuore della notte, va in onda Stracult un programma per cinefili nottambuli che ha nobilitato i film di genere della cinematografia italiana e che tanto piacciono a Tarantino e Scorsese.
Uno dei titoli che merita ancora oggi un po’ di attenzione è Una donna chiamata Apache, diretto nel ’76, da Giorgio Mariuzzo (questo è l’unico suo film un po’ significativo) e interpretato dall’italiano Al Cliver, dalla bella tedesca Clara Hopf e da un gruppo di bravi caratteristi.
Sia chiaro: è un filmetto western girato con un budget irrisorio, in un improbabile panorama toscano. Però vale la pena di cercarlo e di vederlo, in una anonima sera d’inverno, per almeno tre motivi.
La trama. Narra la storia d’amore tra un soldato nordista e una ragazza indiana. Sono entrambi smarriti e fuori del proprio ambiente. Si trovano, si scoprono, si capiscono, anche se non parlano neppure una parola della lingua dell’altro. Il plot scimmiotta Soldato blu, un classico USA, con una stupenda Candice Bergen, però nel raccontare la storia d’amore ha una grazia tutta latina.
Gli attori. Nulla di eccezionale, ma entrano in parte con grazia e i due giovani protagonisti, la Hopf in particolare, nel ruolo di una ragazza spontanea e selvaggia sa essere violenta, dolce e innamorata. I caratteristi di contorno, Mario Maranzana in particolare, danno un tocco di preziosità in più al prodotto.
L’atmosfera generale. Il film si caratterizza per una spiccata violenza, ma soprattutto per un costante razzismo che fa sempre da sfondo. E in tempi di muri, può far capire certi atteggiamenti.
Chi vuole fare ricerca e vedere un film che pochi hanno considerato, passerà un’oretta di buon artigianato cinematografico italiano.
Mauro Pecchenino
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