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Apr 09, 2021 Attualità, Italia
Le trasformazioni nella struttura produttiva e in quelle della distribuzione della ricchezza attraverso il lavoro, stanno modificando alla radice i temi del lavoro. Le organizzazioni sociali e politiche nate all’interno del mondo del lavoro devono cambiare molto, se non tutto, del loro fare.
Nel presentare la sua accettazione alla carica di segretario del PD, Enrico Letta ha accennato ad una questione “centrale” nella fase di Transizione che si è aperta nella Storia umana: il ruolo del lavoro all’interno dei processi aziendali. Potrebbe sembrare o la riedizione di un dibattito della metà del ‘900 – quando la linea emersa al congresso di Bad Godesberg della socialdemocrazia tedesca aprì ai meccanismi di cogestione che caratterizzarono da lì in poi, la natura stessa dell’industria tedesca – o accenni al dibattito italiano degli anni ’70 che alludevano ad un vero e proprio meccanismo di inversione del ponte di comando nel processo produttivo che aprivano il tema della stessa proprietà aziendale.
In realtà, il tema contemporaneo sembra essere dominato più dalla paura di aver smarrito, all’interno del conflitto sociale, una delle componenti essenziali del rapporto produttivo all’interno della produzione capitalistica avanzata – quella della rappresentanza del mondo del lavoro e dei suoi interessi diretti – che dalla voglia di provare a rimettere in discussione i ruoli e le leadership sociali esistenti. Detto in soldoni (o meglio in soldini…) si prova a rimettere in carreggiata il tema della rappresentanza sociale del mondo del lavoro salariato ma senza aprire il confronto che serve a comprendere il perché le grandi organizzazioni di massa che lo hanno rappresentato si sono indebolite e abbiano perso la loro capacità di indirizzo e rappresentatività. Non basterà, alla sinistra del XXI secolo, ripercorrere strade, strategie e conflitti del ‘900 per rimettere in campo una soggettività capace di riprodurre l’autonoma rappresentanza degli interessi del mondo del lavoro che portò alla conquista dei diritti sociali e degli stati del welfare.
La realtà dei processi, invece, ci descrive delle discontinuità che proverò ad elencare: sviluppo della produzione immateriale legata ai processi di digitalizzazione (con i relativi passaggi di centralità nelle merci di nuova generazione, nei prodotti e nei servizi); dimensione globale delle nuove industrie digitali e delle piattaforme (con ricadute a bassissimo valore aggiunto territoriale per il residuo di lavoro che producono sul territorio in relazione al lavoro che distruggono e alle sue forme sociali che pre-esistevano); accelerazione del processo di trasformazione del lavoro-vivo in lavoro-morto (macchine automatiche) dovuto all’intreccio di Intelligenza Artificiale e Robotica; rottura degli equilibri “matematici” dei modelli sociali di welfare basati sulla piena occupazione di lavoro “ufficiale” che ripagava il loro costo; crisi strutturale tra capacità produttiva del sistema produttivo e capacità di acquisto del monte salariale distribuito necessario alla produzione di quei beni (anche il modello keynesiano di supporto al ciclo necessita di interventi sempre più macroscopici e sempre più insostenibili all’interno del vecchio schema di produzione e di distribuzione, sia delle merci sia della ricchezza redistribuita); impossibilità di ipotizzare (anche riuscendo a trovare una soluzione macroeconomica di “rilancio” che non sembra ipotizzabile né è ipotizzata da alcuna nuova “teoria”) un nuovo “new deal” per i limiti dell’attuale “consumo di mondo” che l’umanità produce con la sua presenza sul pianeta.
L’elenco non è esaustivo ma segnala solo che lo sguardo sull’orizzonte deve essere molto più lungo e la capacità balistica del pensiero tendere ancor più in alto. L’avvento delle tecnologie digitali ha trasformato sia la produzione, sia le “merci” tradizionali ma anche aperto a nuove forme di economie, forme sulle quali l’Europa ha dimostrato tutta la sua inerzia culturale e l’incapacità a cogliere i processi di innovazione. USA e Cina guidano i traini e alzano costantemente il livello del confronto/scontro, mentre al nostro continente non rimane che lo sterile dibattito sul dove e con chi schierarsi. Il compianto Giorgio Galli aveva lanciato una provocazione che almeno aveva il pregio di mettere il dito nella piaga: avendo, le grandi compagnie digitali globali, raggiunto il potere delle principali statualità, è arrivato il momento di proporre che i Consigli di Amministrazione delle grandi corporation siano sottoposti al vaglio democratico del voto. In buona sostanza un trasloco di sovranità: dalla borsa valori al popolo (sarà anche il popolo dei “prosumer” ma molto più rappresentativo degli interessi generali ormai rappresentati da queste piattaforme che quello espresso dai giocatori di borsa a caccia di profitti sganciati da ogni responsabilità sociale).
Il terreno indicato da Letta, a mio avviso, va colto come la possibilità di ridiscutere del presente partendo dal lavoro, con l’accortezza che anche sul piano storico il lavoro salariato (oggi ancora predominante) non ha più l’esclusiva e che la vecchia lotta della sinistra per la liberazione dallo sfruttamento salariato può trovare nuove e inedite forme e obiettivi. Ancor più generali e strategici di quelli che furono gli obiettivi generali rappresentati dallo schema imposto del lavoro salariato. In fondo la sinistra nacque per liberare l’umanità da questa forma arcaica di sfruttamento e oggi le condizioni per pensare e progettare una nuova economia esistono tutte.
Sergio Bellucci
Saggista & Giornalista
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