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Set 08, 2016 Attualità
Roma, dal corrispondente
Le Olimpiadi sono finite, ma tra la candidatura incerta di Roma e la voglia di competizione degli umani, sono sempre un argomento di attualità ed è giusto continuare a parlarne. In Giappone debutteranno 4 nuovi sport: Surf, Karate, Arrampicata e Skateboard. Verrà inoltre riammesso il Baseball, già transitato sotto i 5 cerchi qualche edizione fa. Considerando che quelle di Rio hanno ospitato 28 discipline, a Tokyo potrebbero essere ben 33 le attività presenti, da tifare ed – eventualmente – imitare.
Due cose da segnalare relativamente al fenomeno olimpico: si fa la conoscenza di sport di cui fino al giorno prima si ignorava l’esistenza; ci si convince di quanto importante sia l’attività per il benessere psicofisico. Entrambe hanno come logico corollario due appendici importanti. La prima è che spesso ci si innamora di atleti sbucati dal nulla, idolatrati e osannati come eroi nazionali per 3 settimane, dei quali non si ricorderanno nemmeno i nomi due giorni dopo la cerimonia di chiusura e le cui gesta si perderanno “nel tempo come lacrime nella pioggia”.
La seconda è l’irrefrenabile impulso di misurarsi con i limiti del proprio corpo per capire quanto in là è possibile spingere l’asticella della fatica, per confrontarsi idealmente con quei giganti e sfidare il fondato rischio di incorrere in un’angina pectoris.
Questo ultimo aspetto – non l’infarto ma l’incremento degli atleti – è stato recentemente preso in esame da alcuni analisti che, numeri alla mano, hanno cercato di analizzare quanto effettivamente eventi del genere possano impattare positivamente sulla predisposizione degli spettatori e spingerli ad aumentare la loro attività fisica sulle orme dei campioni visti in TV.
Il dato è stato sorprendente. Ad un primo momento di euforia, con picchi di alcuni punti percentuali nel primissimo periodo dopo la fine dei Giochi, segue un drastico tracollo che a volte porta le stime al di sotto del dato di partenza. In altre parole, ci sono stati casi in cui l’effetto delle Olimpiadi è stato quello di allontanare la gente dallo sport.
A cosa imputare questa tendenza anomala almeno all’apparenza?
Il fattore potrebbe essere la semplice constatazione della distanza che divide il vorrei farlo dal riuscire a farlo. In altri termini, dopo una sgambata durata ore, avendo percorso almeno 10 km, si guarda l’applicazione e si scopre che il viaggio descritto, un po’ come tanti casi presenti nella letteratura, è avvenuto soltanto nella propria mente; i metri sono circa 1300 e i minuti non più di 20.
In quel momento si capisce la natura degli addominali di Bolt e delle spalle di Phelps. Non baciati dalla fortuna né forniti dei talari di Mercurio, ma semplicemente abituati a faticare assiduamente e continuativamente. In una parola, ad allenarsi. Il tutto per una vita, al solo scopo di misurarsi in gara per pochi minuti, in alcuni casi secondi e nulla più.
Questo momento di consapevolezza è per molti l’ultimo sforzo lontanamente accostabile a qualcosa di sportivo. Demotivati faranno tesoro di quanto provato e non avvicineranno mai più una pista o una piscina.
C’è poi un altro punto di vista interessante.
Sul sito bbc.com, un articolo sottolinea come l’errore risieda nel fatto stesso di pensare che manifestazioni del genere possano generare l’esigenza o la voglia di emulare i protagonisti dei Giochi. Del resto, fa notare giustamente il giornalista, nessuno sano di mente si aspetterebbe di registrare un picco di aspiranti musicisti alla fine di un concerto di musica classica, per quanto sublime possa essere stata l’esecuzione e il grado di attenzione mostrato dai presenti.
Ultima considerazione che potrebbe dare un po’ di respiro a tutti quelli in procinto di smettere per manifesta incapacità verso qualsiasi tipo di attività, non solo sportiva.
Secondo lo studioso Anders Ericcson, un eminente psicologo dell’Università di Stoccolma, la versione che vorrebbe alcuni soggetti dotati di abilità particolari negate ai più, sarebbe assolutamente da rivedere. Per spiegare il concetto porta l’esempio di uno dei massimi geni del nostro mondo, W.A. Mozart.
Il suo orecchio assoluto (la capacità di riconoscere in qualsiasi rumore una tonalità della scala musicale), ritenuto un dono per un paio di secoli, oggi, grazie alla scienza e alle prove empiriche fatte su un campione di bambini, si è scoperto essere riconducibile all’abitudine del compositore austriaco di ascoltare e studiare musica dai primissimi anni di vita. I soggetti presi in esame hanno superato tutti la prova, dimostrando come sia non un dono ma un’abilità possibile da sviluppare. La teoria è che tutto, o quasi, sia raggiungibile da tutti, o quasi, grazie ad un allenamento mirato e continuo.
Ora resta da capire se tutti quei bambini sarebbero in grado di scrivere la Marcia Turca o Le nozze di Figaro, ma questo è un altro paio di maniche. Il libro si chiama Peak, leggetelo che male non può fare e poi tornate ad allenarvi.
Luca Arleo
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