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Feb 09, 2017 Attualità, World Wide
Roma, dal corrispondente
Un ragazzo francese è stato picchiato e – sembra – violentato da un gruppo di poliziotti.
Le riprese delle telecamere testimoniano alcuni momenti ma saranno i giudici, che hanno aperto un procedimento a carico degli agenti, a valutare, se e in che misura, questi si sono resi responsabili di reati contro il giovane.
A versare benzina sul fuoco qualora servisse, ci ha pensato – stranamente – Marine Le Pen, prossima candidata alle elezioni presidenziali, che con tanto di risonanza mediatica, ha ritenuto opportuno correre a testimoniare la sua vicinanza al corpo di polizia. Il tutto dopo gli scontri seguiti tra gli abitanti del quartiere e le forze dell’ordine.
Con la dose di raziocinio concessa ad ognuno – si suppone – in dote, verrebbe da dire che atteggiamenti del genere dovrebbero essere stigmatizzati, ridotti a semplici trovate pubblicitarie utili a nulla se non ad attrarre poveri cristi in cerca di un’identità. Perché nessuno sano di mente prenderebbe sul serio le facce di circostanza o le parole di solidarietà espresse a comando il giorno dopo i fatti.
Un paese come la Francia, con una questione sociale sempre sul punto di esplodere, non merita tanta bassezza.
Molti giornali hanno ripreso la notizia, ribadendo il fallimento del multiculturalismo in salsa francese, quasi a voler confermare previsioni fatte e riproposte da anni. Sempre uguali. Alcuni richiamano addirittura in ballo il passato coloniale, le politiche che portarono a quell’accoglienza sconsiderata di cui oggi si paga il prezzo. L’utilità di questi commenti, sinceramente, resta ignota.
Il rischio reale però è che si amplifichi il divario interno al paese e che questo porti ad un’esasperazione spendibile in ambito politico.
L’intelligenza della stampa, dei media, e di tutti gli organi di informazione in questo contesto diventa centrale. Chi informa ha il dovere di fotografare non il presente, ma di contestualizzarlo per renderlo complessivo.
I rischi sono dietro l’angolo.
C’è tutto nella trovata messa in piedi ad arte. Screditare la vittima; addossare le colpe ai medici che hanno stilato il referto; ricordare che i poliziotti sono sempre in prima linea per difendere i cittadini, evocare lo spettro terrorismo per riportare alla mente quanto facciano per la comunità le forze dell’ordine.
Non manca niente.
Trump è il segno dei tempi. In un paese come gli USA, ultimamente fuori dal cuore degli attacchi terroristici, la paura montata ad arte ha giocato un ruolo fondamentale. Senza scendere nello specifico della campagna elettorale, resta il dato di fatto. Gli elettori americani hanno percepito che di fronte al pericolo imminente l’unica soluzione plausibile era quella di scegliere l’uomo forte. Anche se le paure che venivano descritte non erano reali, non erano tangibili, erano tuttalpiù proiezioni di possibili scenari.
Il blocco attuato dal presidente, al netto delle sonore campagne di condanna che ha sollevato, trova il plauso di una gran parte di popolazione. E poco importa se tra quelli bloccati non figurino alcuni paesi tra i più tormentati al momento. L’Arabia Saudita non subisce nessun tipo di penalizzazione, nonostante gli attentatori dell’11 settembre fossero per la maggior parte proprio sudditi di Riyad.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
La paura è un potentissimo agente decerebrante. Usata con spregiudicatezza può rivelarsi fatale per le normali attività di un comune cervello umano.
Luca Arleo
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