Ultimo Aggiornamento venerdì 22 Settembre 2023, 5:02
Lug 25, 2022 Attualità, Italia
Negli anni a cavallo tra i ’70 e gli ’80 del secolo scorso si combatté una “guerra” fondamentale per quello che sarebbe stato il futuro del pianeta. Il potente “mezzo” capace di costruire un nuovo “senso della vita” riusciva a mettere le radici in Europa e a sbaragliare le storie politiche e culturali del vecchio continente: arrivava in quegli anni, partendo dall’Italia, il punto più debole tra gli stati nazionali europei, il modello della TV commerciale nata negli USA qualche decennio prima. Il modello della vita si appiattiva al modello dei consumi e le stesse storie delle “merci” nazionali venivano investite dalla potenza produttiva degli Stati Uniti, cancellando le varietà delle storie produttive nazionali e locali.
Iniziava la globalizzazione delle idee legate ai modelli di vita, il prodromo del processo di globalizzazione del decennio successivo. I modelli di televisione in Europa subivano una sorta di “omologazione” progressiva ma non tutto aveva voglia di omologarsi e in Italia il modello di Rai 3 sembrò aprire uno squarcio alternativo.
La figura di Angelo Guglielmi andrebbe analizzata non tanto per il suo valore «semplicemente» culturale, intendendo per cultura quel posizionarsi, individualmente e collettivamente, sul «bordo» degli eventi, indicare i punti di tensione del sistema sottostante, produrre incursioni fuori dai paradigmi esistenti e generare «squarci» nelle interpretazioni correnti. In altre parole, l’andare oltre l’ordine delle cose esistenti.
Un intellettuale, a mio parere infatti, non si giudica per la qualità di quella sua incursione nel vuoto sociale. La sua presunta o reale qualità, infatti, non può essere giudicata che ex-post, per la capacità che quella sua proposta, la sua rottura, abbia avuto nella generazione di una nuova visione delle cose, nella sua interpretazione del mondo, nella capacità generativa di un nuovo «senso delle cose».
Angelo Guglielmi arriva a guidare una rete televisiva in un momento particolare della storia della televisione italiana ed europea. É il momento in cui il paradigma della televisione commerciale (generata negli USA a cavallo della Seconda guerra mondiale) si impone in Italia e poi nel resto dell’Europa. É il momento del massimo sforzo statunitense di mantenere un’egemonia sulla produzione dell’immaginario collettivo che era stata imposta al termine della Seconda guerra mondiale all’Europa intera, con gli accordi sulla occupazione del tempo delle sale cinematografiche europee (80% del tempo dedicato alla cinematografia a stelle e strisce).
Le leggi di riforma prodotte in ambito cinematografico avevano ridotto fortemente l’impatto del cinema e una nuova tecnologia (la televisione) stava sostituendo nella società il ruolo che la sala aveva svolto per anni. Fu il momento in cui in Italia si produsse la rottura del monopolio pubblico sulla TV e arrivarono finanziamenti imponenti per creare la televisione che non c’era, la TV commerciale che ebbe nel gruppo Fininvest di Berlusconi la sua «killer application».
La potenza trasformatrice dei linguaggi e del senso comune delle tv commerciali si abbatté sulla società politicamente più avanzata che esisteva in Europa e, in pochi anni, produsse lo sradicamento delle basi sociali che erano a fondamento della nostra repubblica.
È in questo frangente che la proposta di una TV «nuova» ma non «commerciale» incontrò il favore di una fetta di popolazione che era ancora legata ad un rapporto con la realtà fatto di letture critiche e voglia di indagare i nessi, le connessioni profonde delle cose.
Guglielmi aveva chiaro questa necessità profonda che neanche più i residui delle forze politiche organizzate erano in grado di soddisfare.
Al tempo stesso, proprio quella proposta di «militanza passiva» che andava a sostituire la diretta partecipazione attiva alla vita politica, indusse ad una separazione netta tra chi faceva politica e chi la osservava, anche criticamente, ma ne era ormai tagliato fuori.
La proposta del Partito-TV, soprattutto in quella fase, rappresentò, paradossalmente, una accelerazione del distacco tra le persone e la partecipazione politica.
Non che Guglielmi avesse questo esito in mente o nei suoi progetti. Mancò, nelle strutture politiche del tempo, la capacità di comprensione di cosa fosse l’attacco della TV commerciale e cosa avrebbe prodotto in termini politici e si lasciò cullare nell’illusione della sostituzione delle sezioni con un palinsesto.
Di quel tempo rimangono i ricordi di programmi che «facevano schierare» o che anticipavano letture della società che i partiti, e la sinistra in particolare, stentavano a comprendere.
Guglielmi provò a introdurre, nella crisi culturale introdotta nel corpo sociale dalla TV commerciale, un antidoto fatto, però, di una stessa sostanza e nulla valse a impedire che i frutti di quella rottura dei linguaggi e delle relazioni, tra il sé e la vita prodotta dall’immissione nella società della TV commerciale, producesse gli anni ’90.
Sergio Bellucci
Saggista & Giornalista
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