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Lug 30, 2018 Arte & Musica, Cultura
«La storia è l’essenza di molte biografie», disse una volta il filosofo scozzese Thomas Carlyle e, in un certo senso, non si sbagliava. Ci sono vite straordinarie, tragicamente brevi ed altre baciate dalla fortuna; esistenze solitarie e geniali. Altre ricche di aneddoti. Molte si incontrano, altre si ignorano. Quelle dei musicisti, ad esempio, riservano curiose sorprese.
Bach e Händel, celebri compositori del periodo barocco, entrambi tedeschi, rivali, nacquero nello stesso anno, il 1685, ma non si incontrarono mai pur abitando in due cittadine – Eisenach e Halle – a due ore di distanza l’una dall’altra. Ma c’è un episodio che li accomuna: furono operati di cataratta dallo stesso chirurgo, un certo John Taylor, sulla cui reputazione Charles de Brosses, filosofo e magistrato francese, disse: «quell’uomo, mi parve un ciarlatano», e non si sbagliava. Bach e Händel finirono i propri giorni – rispettivamente nel 1750 e nel 1759 – nella cecità assoluta.
Alzi la mano chi conosce solo Bach, chi solo Händel e chi entrambi. Crediamo di non sbagliare se azzardiamo che Bach ha la meglio sul collega Händel.
Nonostante la sua produzione prolifica – che copre tutto il campo della musica, ad eccezione dell’opera, – per i suoi conterranei, Johann Sebastian era semplicemente uno dei tanti Bach (era una famiglia numerosa), un direttore di cori a settecento talleri l’anno.
Eppure attraversò la vita con tanta serenità ed ebbe altrettanta magnanimità nel perdonare le offese: fu un indefesso lavoratore, eccellente suonatore d’arpicordo, bravo anche nel violino e nella viola. Molti storiografi di musica si meravigliano che Bach, consapevole della propria statura, abbia accettato con tanta rassegnazione l’indifferenza dei suoi contemporanei verso la sua musica, contemporanei che in verità lo chiamavano «il parruccone» perché continuava ad usare un vecchio tipo di parrucche demodé. E la sua musica era come le sue parrucche, apparteneva ad un passato al quale il pubblico voltava le spalle perché rievocava secoli di miseria. Oggi sappiamo che Bach fu il compositore che pose le fondamenta alla musica del futuro, però morì povero.
Mentre Bach si consolava con gli affetti – si sposò due volte, con sua cugina Maria Barbara Bach con la quale ebbe sette figli e tredici con Anna Magdalena Wilcke – il suo rivale Händel godeva, al contrario, di molta popolarità, facendo denaro a palate. Nel 1706 viaggiò in Italia e vi rimase fino al 1710; durante il suo soggiorno nella penisola ricordiamo un episodio che lo vede protagonista: Corelli suonava con il violino un pezzo composto da Händel, e arrivò ad una pagina scritta nella settima posizione. Rifiutò di andare così alto affermando che lo strumento non poteva produrre toni piacevoli al di là della terza posizione. Händel, che era tra il pubblico – e che non venne riconosciuto subito, – chiese a Corelli il violino e gli mostrò che invece era capacissimo di produrre piacevolissimi toni anche in settima. Non c’è dubbio che Händel avesse il suo bel caratterino. Lo dimostrò ancora una volta in Inghilterra, a Londra, dove dovette lottare per non farsi battere dalla concorrenza italiana (gli Inglesi erano appassionati della nostra musica) ed è memorabile la vittoria che riportò su uno dei suoi rivali, il Buononcini. Händel riuscì a dimostrare che il compositore modenese in un suo madrigale aveva plagiato una melodia di Antonio Lotti, l’organista di San Marco a Venezia. Incapace di discolparsi, il Buononcini abbandonò l’Inghilterra. Il lato curioso dell’episodio è che Händel stesso fu uno dei più scaltri ladri musicali e, per giunta, se ne vantava. «Perché no?», rispondeva con ingenuità, «quell’asino non sapeva come presentarli i suoi motivi, io sì». Fu, nonostante i suoi plagi ed il caratteraccio, un grande tra i grandi. Lo dimostra il fatto che sei anni dopo la sua morte, un bimbo prodigio esprimeva la speranza di poter un giorno «emulare Händel e Hasse», quel bambino era Wolfgang Amadeus Mozart.
Tra la musica di Bach e Händel e quella di Mozart, troviamo Haydn a fare da ponte, il cui merito principale fu d’aver introdotto nella musica dell’Occidente le arie popolari croate, come, più tardi, farà Liszt con le melodie ungheresi. Passata l’infanzia in mezzo alla strada, ebbe la sua occasione quando incontrò Niccolò Porpora, compositore di varie opere – allora molto fortunate, oggi purtroppo dimenticate – che lo prese come servitore, e apprezzandone il talento, gli insegnò a comporre. Così, tra una stirata di tunica e arricciando le parrucche di Porpora, giorno dopo giorno, Haydn imparò l’arte, finché divenne maestro di cappella del principe Esterházy, al cui servizio rimase per oltre trent’anni. Il suo appellativo fu «papà Haydn», per il suo carattere gioviale, per quel sense of humour che si ritrova nelle sue opere e per l’ottimismo che lo accompagnò tutta la vita e che lo aiutò a sopportare sua moglie, figlia di un barbiere viennese, gelosa, bisbetica, una sorta di Santippe. Haydn fu uno dei pochi compositori la cui musica venne pubblicata in tutta Europa; adesso la cosa può passare inosservata, ma veder stampati i propri pezzi doveva essere una bella soddisfazione, soprattutto perché dopo l’esecuzione gli spartiti dei musicisti venivano messi via in qualche cassetto, se non usati per accendere il fuoco. Erano per lo più pezzi composti per compiacere il principe di turno, per determinate ricorrenze, per festeggiare una solennità e via dicendo, cosicché, dopo aver assolto la sua funzione, il pezzo cessava di interessare. In vecchiaia Haydn viaggiò molto e al suo ritorno Bonn lo accolse in pompa magna, facendo eseguire una cantata composta, in suo onore, da un giovane pianista, Ludwig van Beethoven. Papà Haydn lodò il pezzo ed invitò il suo autore a Vienna. (Continua)
Giovanna Scatena
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