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Gen 03, 2015 Attualità, Italia
Leelah Alcorn è una ragazza di 17 anni che vive nel corpo di Joshua Alcorn. Anzi viveva, perché è morta pochi giorni fa, quando si è buttata sotto un camion mentre passeggiava su un’autostrada nell’Ohio.
Probabilmente la sua morte non avrebbe avuto l’eco che invece sta avendo se non fosse che prima di fare la sua ultima camminata, Leelah avesse deciso di spiegare i motivi del gesto pubblicando un post sul suo account Tumblr e programmandone l’uscita per un’ora in cui il tutto sarebbe già accaduto.
Oggi sta diventando un’icona per tutti i transgender che hanno avuto modo di conoscere la sua storia. Una storia come quella di tanti. Leelah aveva capito tutto a 14 anni. Quando scoprì che esisteva un nome per quello che lei sentiva, e che altri prima di lei avevano provato le stesse sensazioni. Pianse prima di felicità e subito dopo per la tristezza che seguì la reazione negativa della famiglia. Inizia da lì la storia che ha portato la ragazza a fare la sua scelta il 28 dicembre scorso. Le mille aspettative che aveva da anni erano state brutalmente disattese proprio dalle persone più vicine. Nel post ci sono passaggi forti rivolti proprio ai genitori, rei di non aver saputo ascoltare quella richiesta di aiuto, anzi colpevoli di aver trattato la cosa come una malattia: “I immediately told my mom, and she reacted extremely negatively, telling me that it was a phase, that I would never truly be a girl, that God doesn’t make mistakes, that I am wrong”. Si rivolge a tutti i genitori e li esorta a non fare quello che i suoi hanno fatto, a non trattare come fossero dei freak i propri figli bisognosi di aiuto, a non farli sentire come i suoi hanno fatto sentire lei: sbagliata. Nel tempo Leelah capisce che non riuscirà mai a convincere la madre ad aiutarla nel percorso che porta all’operazione, ma soprattutto inizia a pensare che le cose non miglioreranno mai. È l’inizio della fine. Lo scrive proprio lei nella sua lettera: “I’m never going to be happy […] There’s no winning. There’s no way out. I’m sad enough already”. Dice di non credere più che le cose possano andare per il verso giusto e che non ha intenzione di vivere una vita da uomo che vorrebbe essere donna, ma neanche quella di una donna frustrata che odia se stessa: “That’s the gist of it, that’s why I feel like killing myself”
La famiglia è stata subito messa sotto accusa dall’opinione pubblica, tanto per quello che ha scritto Leelah nella sua lettera, quanto per il fatto di aver parlato in un’intervista dopo l’accaduto, usando il nome Joshua e utilizzando aggettivi e pronomi al maschile. Si apprende che sono di stretta osservanza cristiana, e che da questo deriverebbe l’atteggiamento tenuto nei confronti della cosa. Quel “Dio non fa errori” suona come una bestemmia proprio contro il concetto stesso di Dio. Benigni – giorni fa alla TV – spiegava bene proprio quali siano i concetti che si nascondono dietro il comandamento “non nominare il nome di Dio invano”. Questo è esattamente uno di quei casi in cui lo stesso Signore preferirebbe non essere tirato in mezzo.
Nella lettera ci sono anche poche righe di saluti, parole di ringraziamento verso quanti hanno alleggerito il suo cammino, verso la sorella alla quale dice “I’m so happy you’re my sister” e verso i pochi amici con cui poteva confidarsi.
C’è anche un saluto per i genitori, recita più o meno così: “Mom and Dad: Fuck you. You can’t just control other people like that. That’s messed up”.
Nessun giudizio, per carità. Parte della pena deve sinceramente essere destinata alla famiglia che vivrà con quelle poche parole come unica eredità. Speriamo soltanto che queste tragedie possano alzare il velo su temi troppo spesso messi in un angolo e aiutare anche quanti, pur volendo capire cosa sta succedendo ai propri figli, non hanno gli strumenti necessari per affrontare l’argomento.
Luca Arleo
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