Ultimo Aggiornamento giovedì 12 Dicembre 2024, 6:06
Questa incapacità è il cuore della crisi che stiamo attraversando. Durante una Transizione, infatti, muoiono le vecchie forme e ne nascono di nuove. Ma non è un cambiamento indolore. Prefigura passaggi epocali, rotture sociali e nel sistema della conoscenza, cambiamenti nelle forme delle istituzioni, delle leggi, dei soggetti che muovono le fila dei processi economici. E il nostro Establishment non è preparato.
Nel World Trade Report 2018, Patrik Tingvall, capo economista del National Board of Trade svedese, segnala quanto il WTO non sia preparato a regolare le implicazioni delle stampanti 3D: un aumento dei flussi internazionali di capitali e dati (cioè sapere, informazioni e proprietà intellettuale) con una territorializzazione dei processi di produzione, quindi con una minore circolazione di beni intermedi, la cui combinazione fornisce una delle cause della tendenziale diminuzione del commercio mondiale indicata dai dati forniti da Mark Carney, governatore della Banca d’Inghilterra.
Tanto per fare un esempio vediamo due tendenze già consolidate del modello digitale: la riduzione del numero di aziende che offrono dei servizi e la riduzione dell’occupazione in queste aziende.
Nell’era industriale meccanica ogni nascita di un nuovo settore (la trasformazione di un bisogno in merce o la creazione di una nuova merce prima inesistente) generava una valanga di imprese, spesso in concorrenza. La tendenza a concentrarsi in una unica azienda in grado di fornire quel bene era affrontabile con facilità attraverso leggi antimonopolistiche. Questa caratteristica del sistema favoriva lo sviluppo dell’occupazione e un numero sufficientemente grande di imprese che si dividevano il controllo sociale che derivava dalla produzione di quello specifico bene. La crisi di una azienda non determinava il collasso della fornitura di quel bene alla società.
Il mondo digitale è totalmente diverso. Un po’ per scelta del governo USA che ha deciso di far sviluppare in maniera incontrollata dei colossi planetari (pensando di estendere attraverso di essi un controllo sociale e politico all’intero mondo) e un po’ per le caratteristiche relazionali del modello produttivo del digitale. Se decido di aderire ad una piattaforma per incontrare delle persone, proverò ad aderire alla piattaforma dove sono iscritte il maggior numero di individui, aumentando la possibilità di soddisfazione del mio bisogno. Questa tendenza porta alla riduzione spontanea del numero di piattaforme relazionali che si sostengono economicamente. Inoltre, proprio la mancanza di normative antitrust nel settore digitale, che proprio per queste sue condizioni intrinseche è globale, ogni iniziativa alternativa alle piattaforme esistenti che raggiunge un certo successo viene acquisita dai soggetti dominanti il mercato. La cosa è talmente radicata al punto che l’obiettivo del 99% di chi sviluppa innovazione nel settore digitale dice, apertamente, che il suo obiettivo è solo farsi acquisire da una delle 5/10 società che controllano il mercato digitale.
In altre parole, lo sviluppo del digitale, allo stato dell’arte, è lo sviluppo più concentrato che l’umanità abbia mai conosciuto.
In teoria, però, anche poche aziende potrebbero offrire una enormità di posti di lavoro. Dal punto di vista dell’occupazione la cosa potrebbe non avere conseguenze sistemiche. Osserviamo, però, le tendenze che sfuggono alla politica e agli economisti. Una delle aziende tradizionali più grandi del pianeta, probabilmente l’ultimo colosso dell’era industriale è la Wall-Mart. L’azienda nasce nel 1962 proprio nella fase matura dell’era industriale meccanica. Nel 2017 il suo valore di mercato era di 287,6 Miliardi di Dollari. Sviluppa tale montagna di soldi facendo lavorare, nel mondo, circa 2,3 milioni di persone. Una delle prime industrie digitali, la Apple, nasce nel 1976. È una azienda ancora fortemente ancorata al concetto di merce. Certamente, una merce particolare, sofisticata e digitale. Uno status symbol, come direbbero i colti. Nel 2017 sviluppava un valore di 791,7 Miliardi di Dollari con circa 123.000 dipendenti e con un enorme indotto dislocato in molti paesi del mondo. Google nasce nel 1998. È la prima vera azienda dell’era digitale. Il suo core business non è più in una merce, ma in un servizio relazionale. Nel 2017 sviluppava un mercato di 664,5 Miliardi di Dollari con circa 78.801 dipendenti. Facebook vede la luce meno di un decennio dopo, nel 2004. È la prima azienda di successo del web 2.0 e inaugura, di fatto, una nuova stagione del digitale. Nel 2017 sviluppa 399 Miliardi di Dollari, ma lo fa con 20.657 dipendenti nel mondo. Pensate che la filiale italiana conta meno di 30 persone. Uber nasce nel 2009. Nel 2017 è la più grande azienda di trasporti del mondo e non possiede neanche un mezzo di trasporto. In quell’anno fattura 69 Miliardi di Dollari e da lavoro a 1.500 persone. Anche Whatsapp nasce nel 2009 ma il suo core business è totalmente digital-relazionale e si basa sulla creazione e commercializzazione di dati. Rappresenta, probabilmente, il modello di assestamento della nuova produzione di valore della nuova fase storica. Nel 2014, anno della acquisizione da parte di Facebook, il suo business raggiunge i 19 Miliardi di Dollari. Sapete quanto personale aveva Whatsapp in quel momento? Tenetevi forte: 55 persone.
Potremmo anche calcolare quanto valore produca, per la singola azienda, il lavoro individuale. Per la Wall–Mart il singolo lavoratore produce 124.000 dollari. Per Apple sono 6,4 milioni di dollari. Google si assesta a 8,5 milioni mentre Facebook raggiunge i 19,5 milioni per occupato. Uber raggiunge i 46 milioni e Whatsapp ben 345 milioni a dipendente.
Questi numeri dimostrano che il valore prodotto dal tempo di lavoro di ogni singolo lavoratore dipenda da altri fattori che non sono riconducibili nella semplice potenza del sistema macchinico utilizzato. A mio avviso, come già teorizzavo nel mio E-Work, l’avvento del cosiddetto Lavoro Implicito, modifica la forma di produzione del valore e consente alle piattaforme di estrarre valore dai comportamenti sociali. Se dovessimo fare un calcolo, basandoci su tale base di lavoro implicito, ci accorgeremmo che i miliardi di individui che lavorano gratuitamente per le piattaforme social rappresentano il cuore del nuovo sfruttamento digitale di cui molti non solo non sono coscienti, ma che rinnegano con l’idea di ricevere dalla piattaforma stessa un servizio gratuito. D’altronde, svariate decine di anni di offuscamento sul concetto di bisogno e di consumo, da parte dell’industria di senso, hanno resa miope una parte consistente della popolazione mondiale.
Quello che non viene preso in considerazione, inoltre, è il quadro esponenziale che caratterizza la dinamica economica dell’era digitale. I suoi impatti vengono ignorati, trascurati, affrontati con le vecchie logiche. Il nostro establishment, arroccato sulle sue vecchie conoscenze, guarda al mondo in divenire vorticoso un po’ come guardavano le fabbriche i fisiocrati nell’Ottocento.
Sergio Bellucci
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